Past aveva ascoltato le parole di Arturo
ma non riusciva a crederci. Quando questi finalmente con un sorriso malizioso si
mise in attesa di vedere l’effetto delle sue parole, sbottò:
- “Ma va!”
- “Te lo giuro!” ribatte pronto Arturo
voltandosi in cerca del cameriere.
Rick scoppiò in una risata piena e
soddisfatta come chi si sente all’improvviso baciato dalla fortuna. Si guardò
attorno sorridendo, incrociando gli sguardi degli altri, volevano credere ad
Arturo ma sembrava impossibile.
- “Beh non resta che andare a vedere,
direi” propose Th tagliando corto.
- “No? Voglio dire, riusciamo ad andarci
questa sera? Adesso?” E continuò “Io posso, ho detto ai miei che cenavo fuori.”
Non che genitori Th fossero poi particolarmente severi con lui. Tuttavia, la
madre apprezzava molto sapere dove si trovasse il figlio casomai servisse e
molto spesso non aveva idea di dove fosse veramente.
Arturo, invece, doveva improvvisare una
qualche strategia per ottenere la serata libera e la cosa lo infastidiva
parecchio. I suoi non capivano che bisogno avesse il figlio cenare fuori di
casa. Almeno così dicevano. La madre, gli ricordava sempre il padre, cucinava
sicuramente meglio di qualunque cosa lui si fosse potuto permettere. Per non
parlare poi di dormire fuori. “Cos’ha il tuo letto che non va?” era questa la
risposta più probabile. Impossibile ragionare. Decise ad ogni modo che valeva
la pena provare.
- “Ci sto!”
Alle loro spalle passò il cameriere senza
degnarli di uno sguardo.
- “A che ora?” Chiese Past il quale non aveva
bisogno di avvisare nessuno in quanto, per ragioni complesse e oscure ai più, i
suoi genitori approvavano a priori ogni sua scelta.
- “Apre verso le dieci.” Specificò Arturo.
- “Che ore sono?” Si guardarono di nuovo,
l’orologio sul registratore di cassa segnava le 18.12
- “Meglio partire subito!” Concluse Rick.
Lui non aveva bisogno di chiamare casa, aveva già fatto il militare.
Dentro, la cassetta che Frank aveva
prestato a Past suonava nell’autoradio:
“Corri
forte, ragazzo corri, la gente dice sei stato tuu,
corri
forte, non ti fermare, il fuoco brucia la tua virtuu…”
Fuori, le recinzioni delle case della
zona residenziale, con i giardini puliti e rigogliosi ormai avevano lasciato il
posto a un progressivo disordine. Lungo i bordi della strada comparivano vecchi
televisori a pezzi, carrelli della spesa abbandonati, rottami vari.
Proseguendo, attraverso il finestrino, Past vide sbucare dalle
macerie muri, colorati in modo sempre più rimbombante e fino alla lunga parete rossa. Il muro di cinta
del Centro Musicale in realtà era una lunga parete bianca che aveva resistito
alla storia dell’edificio e su cui generazioni di pittori avevano lasciato del
loro. Ora pareva rossa. Volti rabbiosi che urlavano scritte spigolose
multicolori.
Era importante che, per esistere, il
Centro, del tutto privo di qualsiasi autorizzazione, in ogni sua espressione dichiarasse,
urlando, la sua posizione. La sfrontatezza e il manifestare a gran voce il
diritto ad essere vivo per volontà popolare, manteneva l’illusione.
Come un’isola del desiderio nel
territorio del dovere. Quella sera, tuttavia, esisteva davvero.
Lasciarono la piccola auto dove si
erano costretti in quattro per quasi un’ora, lungo il muro. Non avevano
familiarità con il posto. Solo
Arturo ci era già stato e considerando l’entusiasmo che l’iniziativa, in
effetti, poteva suscitare nel giro, aveva approvato l’idea di arrivare in tempo
per prendere il posto in prima fila.
Qualunque genere di spettacolo gli si fosse presentato davanti,
dovevano essere i primi.
Entrarono, l’edificio era quasi deserto, avevano quasi tre ore
di anticipo, il sole non era ancora tramontato, l’oscurità, che tutti protegge,
si faceva attendere.
Th, Rick e Past seguirono Arturo attraverso il giardino e oltre
l’ingresso, nonostante, sapessero che non aveva la minima idea di dove andare,
veniva loro naturale seguirlo. Il fatto che fosse più vecchio di loro, che conoscesse,
anche se solo per scambiare un saluto al volo, personaggi che parevano
dimostrare l’esistenza di mondi a loro sconosciuti, gli aveva procurato fin da
subito la loro fiducia. Salirono le scale di legno che portavano alla
piattaforma che era poi dove dovevano andare e sulla cui reale esistenza
avevano scommesso ore prima salendo in auto. Questa era una sorta di ampio
soppalco, quasi una palafitta di tavole di legno e tubi innocenti. Alla fine
della lunga rampa di scale si apriva come un grande terrazzo e sulla parete
opposta un enorme pannello di legno pressato nascondeva alla vista la sala
sottostante. Al centro del divisorio, da un buco rotondo sporgevano 10 cm di tubo
arancione per edilizia. Dal buco nessuna luce. Si accomodarono su vecchi sedili
pieghevoli da sala parrocchiale. Come in attesa di una visita medica si
armarono di pazienza. Arturo raccolse i soldi per la birra. Th si mise a
scaldare il fumo portato da casa. Si prepararono all’attesa.
Trascorse un tempo
indefinito e ancora una volta Rick estrasse del fumo dal contenitore, valutata attentamente
con una rapida occhiata la quantità necessaria, si sistemò meglio sullo scomodo
sedile di legno, prese tra le labbra un pezzo di cartoncino arrotolato
strappato dal pacchetto di sigarette, strinse il pezzo di resina semi polveroso
tra pollice e indice della sinistra con un accendino lo scaldò facendosi cadere
la polvere, simile a sabbia umida, sul palmo. Con l’altra mano tirò fuori dalla taschino della camicia
militare una sigaretta, una delle ultime. La strappò lungo la colla e lasciò
cadere il tabacco sulla povere riscaldata. Mescolati in scioltezza i due
ingredienti, rovesciò il tutto su una cartina e ad un capo infilò il cartoncino
arrotolato. Poi senza quasi guardare ciò che faceva avvolse la cartina sulla
mistura, la leccò, strinse l’estremo con il cartoncino tra le labbra e diede
fuoco al capo opposto. Un rapido giro di sguardi stabilì chi sarebbe stato il
secondo. Arturo si alzò, intercettò il passaggio verso Past, il prescelto, e
aspirò tre boccate in rapida successione, scatenando lo sdegno generale.
- “Devo pisciare” Borbottò
con la gola piena di fumo. Girò su se stesso e s’incamminò verso la ripida
scala di legno e tubi, a metà discesa fu avvolto dalla penombra, dentro e
fuori. L’atmosfera al piano di sotto era cambiata. Il locale si era riempito di
persone, le luci colorate erano tutte accese quelle bianche invece tutte
spente. Nel frattempo, dal loro arrivo, si era fatto buio e dalle poche finestre
del locale non filtrava più alcuna luce. L’aria era piena di odori, il fumo
delle iniziative individuali, dei lavori della cucina, gli incensi sparsi
ovunque, il lezzo di sudore e di vestiti non lavati.
Arturo era sicuro di sapere
dove si trovasse il bagno, non distintamente ma più come se lo avesse sognato.
Nonostante, i pochi riferimenti, trovò presto la porta. Era di metallo
verniciato di rosso, diamantata sopra e sotto, in mezzo una maniglia di
plastica nera. Si apriva in continuazione, gente entrava altra ne usciva.
Aspettò che il successivo lasciasse la maniglia, la afferrò senza che la porta
si richiedesse e scivolò dentro.
Il locale dava su un’ampia
parete interrotta da una decina porte sempre di metallo e sempre rosse, alle
sue spalle un grosso lavatoio di ceramica bianca di tipo industriale
inutilizzato. Alcune delle porte erano rimaste aperte mostrando le luride
latrine che dovevano nascondere. Alcune erano occupate, la maggior parte era
senza maniglia dentro e fuori. Ad Arturo pareva questo un fatto inaccettabile. Per
un momento fu sul punto di lasciarsi prendere dallo sconforto, valutò la
possibilità di uscire in strada, dove sarebbe stato protetto dal buio, ma
proprio in quel momento dall’unica porta chiusa uscì un tipo tarchiato
dall’aria scontrosa e un poco stordita. Immaginò un sorriso distendersi sul suo
viso e rapidamente si diresse verso il cubicolo, certo ormai di farcela prima
che altri lo precedessero. E così fu. Arturo guadagnò l’ingresso del bagno di
slancio e con e con altrettanto slancio chiuse la porta dietro di sè. Come un
proiettile la maniglia in plastica nera lasciò la sua sede e sparata a gran
velocità verso al parete di sx, rimbalzo sulle piastrelle con un angolo di 45°
prima di cadere con moto spirale nel piatto della turca e infine nel buco di
scarico.
Se si fosse trovato
in un circuito di minigolf,
probabilmente avrebbe apprezzato l’abile evoluzione. Arthur, invece, rimase
interdetto dal’ironia dell’episodio. Aveva scelto quella porta proprio per la
maniglia interna ed ora non c’era già più. Sorrise divertito. Spinto
dall’urgenza si riprese prontamente e si risolse a perseguire lo scopo per cui
era li, negando l’esistenza di qualsiasi problema. “Non c’è nessun problema”, si
disse, “niente che non si possa risolvere con un paio di pugni ben dati.” Ridefinita
in questi termini la situazione, si rilassò e pisciò a sua volta.
Al momento di uscire dallo
stretto cubicolo si voltò verso la porta e notò le numerose impronte che la
ricoprivano. Oltre alle immancabili scritte molte delle quali incomprensibili,
si leggevano, attraverso segni di suole e ammaccature, numerosi tentativi di
forzarla. Subito si fece largo un triste presagio che rischiò di scoraggiarlo, ma,
ricacciato il panico in fondo al cuore, cercò al suo posto della collera che lo
aiutasse a colpire la porta con la forza sufficiente per scardinarla. Qualcosa
trovò e colpi il metallo con gran forza o almeno così gli parve perché in quel
momento non si sentiva molto violento ma piuttosto sensibile, mentre la porta
pareva pronta a reggere tutt’altro. Provò ancora con pugni e calci sempre più
timidi. Timoroso anche di danneggiare qualcosa ben presto esaurì lo slancio. Scoraggiato
Arturo si appoggiò con la testa alla solida barriera e con le braccia allungate
lungo in fianchi si preparò ad accettare quello che inizialmente pareva una
soluzione di pura fantasia. Lentamente girò su se stesso, desolatamente scoprì
il braccio destro sollevando la manica della giacca di pelle scura.
S’inginocchiò ed immerse il
braccio destro nel liquame dello scarico quasi fino al gomito. L’odore era terribile
anche da fuori ma avvicinando il viso al fondo diventava insopportabile. Per
fortuna la mano trovò subito la maniglia e ancora gocciolante la inserì nel
perno che era rimasto al suo posto. La girò ed uscì.
Fuori, appoggiato al
grosso lavandino di tipo industriale, con le braccia conserte sul petto e
l’aria rilassata stava Past.
” Ah, eri tu che bussavi?”.
In quell’istante sentì la
porta chiudersi dietro di sé, il tintinnio di un oggetto che colpisce le
piastrelle di ceramica, il tuffo nell’acqua e un‘imprecazione.
” Mi serve del sapone!” .